giovedì 25 luglio 2013

Agosto vegetale


Marine coltivava cactus enormi nella sua casa. L’estate era quasi finita. Acquazzoni improvvisi bagnavano le piastrelle del balcone. Marine si affacciava e vedeva le nuvole come castelli che crollano. Correva nell’angolo e riparava sotto un telo impermeabile le sue piante spinose.


 
Io la spiavo. Non mi stancavo mai di guardarla. Lei abitava di fianco a me e non mi era difficile. Scostavo la tenda bianca della mia stanza e fissavo con amore i suoi riccioli scuri, selvaggi, che si bagnavano.

  Io ero uno studente diligente, tutto il palazzo parlava bene di me; lei era solo “Marine la pazza”. Lavorava in un’impresa di pulizia, ma non era costante. Talvolta non si presentava al lavoro, si chiudeva in casa a parlare con le sue piante. Io lo so, perché l’osservavo. Una mattina mi decisi: andai davanti allo specchio, mi pettinai. I miei capelli erano deboli. Me li bagnai. I miei occhi sembravano tagli. Non dovevo pensarci. Bussai alla sua porta. Marine mi aprì.


   Aveva un vestito a fiori su sfondo nero. I fiori volavano lentamente su di lei, in una notte scura. Aveva la pelle bianca con ombre bluastre. Il suo profilo era imperfetto, ma le sue labbra si muovevano con una grazia antica.
- Vuoi un caffè? – mi chiese. I suoi occhi brillavano.
- Sì – le dissi.

   Capii che la desideravo. Non mi era mai capitato prima di allora. Avevo 18 anni ed ero timido. Trascorrevo i miei giorni sui libri. Avevo baciato solo due ragazze, ma per gioco. Marine mi sembrò una sirena appena sgusciata da un sogno umido, notturno.


 Foto di Anita Libera Corsi

   Beviamo il caffè in silenzio. Io sento i cactus respirare. Uno sta per fiorire: ha un grosso bocciolo bianco, cieco.
- Non dovevi venire – sussurra lei, all’improvviso.
- Nessuno mi deve vedere quando sto male –
- Scusa - mormoro, ma non riesco ad alzarmi.

   Lei sta sudando. Sembra un croco all'alba, imperlato di rugiada.
- Vorrei aiutarti – le dico, ma è tardi: lei si alza e ansimando forte cammina attorno al tavolo, freneticamente.
- Io… Io… - riesco solo a dire. Lei si lascia cadere per terra.
- Marine… - mormoro e nei suoi occhi sbarrati vedo centinaia di nuvole che scorrono via veloci. Il suo viso è un cielo.
- Amami – sussurra.
- Amami Luca –

   La bacio. Marine si toglie il vestito. Sotto ha solo delle mutandine celesti, un po’ macchiate. Sento che non sarò più il ragazzo diligente di un tempo. Sento che c’è qualcosa di nuovo e violento in me.


   Marine grida. Le finestre fanno entrare una luce azzurra come la sua pelle. La sua pelle è trasparente: le sue vene si vedono e sembrano dei fulmini. Io mi sento lupo e mi muovo agilmente in lei.
- Tu sei il mio cactus –  mormora con una voce roca. Io la guardo: sembra parlare nel sonno.





Da allora cambiai. Abbandonai i miei libri sul tavolo. Incominciai a fumare. Mi persi più volte per la città. Nel fiume, talvolta, vedevo le nuvole precipitare. Seguivano il corso delle acque. Niente era più come prima. Ogni cosa mi appariva viva e mutevole.

   I miei capelli erano cresciuti: erano forti e ribelli. Ero stato contaminato. Provavo pace solo osservando la sua casa dall’esterno. Vedevo Marine parlare e curare i suoi cactus. Vedevo le sue mani bianche nella terra. Vedevo il suo profilo e mi sembrava la luna. Il fiore era sbocciato: aveva una lacrima di sangue al suo interno. Come Marine.

lunedì 8 luglio 2013

Vox caeli





Dedicato a papà.

“Ses purs ongles très haut...”   Mallarmé.


  

 La notte

        le stelle si aprono come fiori di luce

               sono gocce che brillano su un soffitto altissimo

  e, a volte,

sembra che si stiano per staccare

               e cadere giù.

 Come una pioggia magica.

 

Notte. Non c’è altro che notte per me, da che sono piccola, da che mi ricordo.  Adesso ho quasi diciotto anni e ho deciso di scrivere le mie memorie, per ingannare il tempo, giacché ormai il tempo comincia a pesarmi, in questo ticchettare lento di pendoli. Sì, perché nell’Osservatorio, dove io abito con mio padre, vi sono vari tipi di pendoli, orologi impolverati che battono senza posa di giorno e di notte. E uno segna l’ora di Amsterdam, un altro segna quella di Parigi, un altro ancora quella di Timbuctu... Perché, come dice mio padre, “Occorre sempre essere in linea con l’universo” e l’universo, si sa, parte dalla Terra.

 

     Talvolta mi soffermo a contemplare il quadrante di vetro di qualche orologio e lascio scorrere il dito su quella superficie. Chiudo gli occhi e la polvere diventa una carezza leggera d’aria. Disegno geroglifici incomprensibili anche a me.

 

     Ma forse, l’oggetto preferito dall’Astrologo - mio padre - è la grande clessidra che volta e rivolta nei momenti di massima concentrazione. La sabbia, che a me fa pensare a deserti lontani, scivola nell’imboccatura stretta e la luce debole della lanterna vi proietta sopra ombre mutevoli come fiamme nere che danzano.

 

     Mio padre è un grande studioso delle stelle e così io e lui vegliamo tutta la notte; la nostra vita è scandita da un ritmo diverso rispetto a quello delle altre persone: il ritmo inesorabile delle onde del mare, del gocciolio del rubinetto rotto, del ruotare lento delle luci, lassù.     (29 Novembre 1999)

 

     Cassandra scriveva nella penombra e i ricordi e le immagini le affioravano sconnessi e disordinati sulla pagina un po’ ingiallita di un vecchio quaderno a righe. La sua grafia fluttuava dal basso verso l’alto in allunghi diseguali e lo slittare del pennino era l’unico suono percepibile, nella stanza.  Un grosso gufo l’ osservava dal trespolo legnoso, poco lontano da lei e lei, talvolta, alzava il viso bagnato di luna verso Ask (così si chiamava il rapace) ed entrava nei suoi occhi gialli come soli ghiacciati.

- Aschi - sussurrava allora, con una vocetta incerta

- ti annoi? -

  Ma il gufo non accennava alcuna espressione attraverso il suo piumaggio scuro, lucente, che pareva raccogliere tutti i colori delle foreste notturne, intricate di rami, spine e lance arrugginite di guerrieri.

  L’astrologo era chino sul suo telescopio puntato verso i raggi di gelo delle costellazioni.

- Cassandra! - chiamava, con una voce roca che sembrava provenire da antri di roccia spaccata.

- Cassandra! Scrivi questa formula! - e i suoi capelli d’argento, sotto la luce della lucerna ad olio, erano come il vello di un animale delle nevi.  Lei, allora, si alzava da terra e sgattaiolava verso il padre, fisso sulla sua sedia d’acciaio, e scriveva ciò che la voce sotterranea le dettava.

 

(30 Novembre 1999)  Il mio papà non cammina più da anni, a causa di un incidente terribile che lo paralizzò. Eravamo in macchina io, lui e mamma. Pioveva a scrosci violenti, improvvisi. Un’ auto sbandò, i vetri si frantumarono con un grido di mille voci. Mamma morì e papà non camminò più.

 

  La stilografica si fermò. La sua mano era come una ninfea sfiorita, umida di sudore  freddo. E i suoi occhi castani, severi ed ardenti, scivolarono verso l’Astrologo e le sue gambe, coperte da una pesante trapunta.

- Arriveranno - sospirò lui con una voce subacquea. Cassandra sapeva che parlava di “presenze esterne” provenienti dal cielo. 

- Tu che ne dici? - le chiese lui, guardandola per un istante, intensamente. La sua barba, sotto la luce del firmamento era simile ad un prato d’inverno, incrostato dalla brina, ma i suoi occhi erano mansueti, come quelli dei cani randagi.

- Allora? -

- Non saprei... - balbettò la figlia, ingobbita come una vecchia civetta. La ragazza si incupiva quando suo padre le si rivolgeva in quel modo. Sembrava aspettarsi sempre una rivelazione da lei. Forse a causa del suo nome.

 

(30 Novembre)     Mia nonna si chiamava Cassandra ed era una sensitiva. Asserì che sua nipote avrebbe salvato il pianeta con una profezia... Per questo lui attende... Attende cosa? Io non sono niente e lui non lo vuole capire. Sono solo un’anima che ha voglia di esplodere. Talvolta mi prende una frenesia inconsulta e mi metterei a gridare, a spaccare tutti i pendoli, a ridere a squarciagola, scendendo di corsa le scale del torrione, precipitando giù. E invece sto zitta e faccio finta che tutto vada bene. Sfoglio gli atlanti celesti, con le costellazioni segnate e la voglia di piangere che mi forma un nodo, come se avessi un polipo dentro la gola.

 

Talvolta Cassandra invidiava Ask che, di notte, apriva le sue ali piene di tutte le sfumature del buio, e se ne volava via, “per chissà quali avventure” pensava lei, corrucciata, e allora si arrampicava sulla balaustra e, accovacciata come un corvaccio, fissava ogni più minuto particolare delle case al di sotto, deserte nell’azzurro stinto dei loro muri. I radi alberi si muovevano leggermente al vento, come scheletri neri, e il mare, in fondo, non era mai uguale.

Poi Ask tornava, maestoso e più bello di prima, e lei lo guardava ammirata. I suoi occhi, allora, brillavano di una luce calda e ansiosa.

     La torre era adibita, oltre che ad Osservatorio, anche a prigione locale. Vi erano tre stanze in tutto per piccoli criminali, vecchi ubriaconi del paese, per lo più, o svitati che vi tornavano periodicamente. Questi personaggi, per Cassandra, erano molto interessanti e, tra l’altro, incarnavano la sua unica distrazione: tutte le sere era infatti suo compito portar loro la cena.

 

(20 Dicembre)   Vincè, il pescatore, è stato qui per soli due giorni. Mi dispiace che se ne sia già andato, perché mi piace molto chiacchierare con lui. Mi racconta ogni sorta di avventure che ha vissuto per mare... Le sue rughe, talvolta, sembrano nascondere un qualche mistero insondabile. Le ombre difatti, gli scavano la faccia come una prugna rinsecchita, bruna e cotta dal sole.

- Tu Sandrina - mi dice sempre

- devi farti un po’ più vedè al paese, che manco sanno come sei fatta i guagliò, laggiù... Te ne stai sempre nascosta in questa galera... E poi ti stai curva e sei sempre più magra e nera...-

- quasi me sembri una gazza! - conclude poi aprendo la sua bocca piccola, disidratata. E ride col suo sorriso nero (poiché è senza denti) ed io invece mi mortifico e mi mordicchio le unghie. So che Vincenzo ha ragione, ma so anche che lui non può capire... Il mio ritmo vitale è ormai regolato a quello di mio padre, al suo silenzio, al ronzio della sua sedia a ruota e al suo sguardo che si dilata quando alza gli occhi. Forse nessuno mi può capire. E il cielo notturno, talvolta, mi sembra trafitto e pieno di piaghe. Le stelle sono come stalattiti corrose di luce che pendono verso di noi, acuminate.

 

     L’astrologo segnava sulla carta dei cerchi concentrici e tracciava dei numeri accanto.  Poi si voltava lentamente e  spiava la figlia che parlocchiava sottovoce col gufo. I suoi occhi si riempivano per un istante di bagliori lontani

- E’ ancora una bambina - pensava, quasi rincuorato, ma qualcosa dentro lo pungeva. 

- Non andartene più - bisbigliava Cassandra, rimproverando Ask.

- Non devi lasciarmi più sola -

 

 

  Qualcosa turbò comunque, la quiete siderale della torre, nonostante gli sforzi del padre.   Qui infatti, fu imprigionato un forestiero, capitato nell’isola non si sa per quali traversie. I secondini sostenevano che era lì solo provvisoriamente. Cassandra appena lo vide nell’azzurro della sera, trasalì. Una vena di ghiaccio le attraversò la schiena.

- La cena... - mormorò.

  Lui si voltò di scatto. Aveva i capelli piuttosto lunghi e i suoi lineamenti parevano scolpiti nel legno.

- Beh, che c’hai? - l’apostrofò lui.

- Che stai a fare, dammi la ciotola e sparisci -

Cassandra obbedì tremando, posò il cibo nella cella e scivolò via per le scale, ma a metà strada s’infuriò con se stessa e con lo straniero. Il suo primo sentimento fu l’odio.

 

  Nei giorni successivi però, qualcosa mutò in lei: i suoi capelli ricci diventarono setosi, il suo sguardo s’illuminava improvvisamente come percorso da una scia dorata, i suoi gesti apparivano più lenti, meno impacciati del solito. Nonostante questo, l’apparenza di Cassandra era sempre quella di un’adolescente ossuta, dal naso adunco prominente e dalle vesti arabescate assurdamente, come una dama fuori luogo e fuori dal tempo. Gli abiti dai tessuti pesanti se li cuciva lei, in modo infantile così che, talvolta, le si staccavano dei pezzi, anche solo facendo un movimento un po’ più affrettato.

 

(5 Gennaio) Si chiama Rocco, ha qualche anno più di me ed è sconosciuto il suo luogo di provenienza. Io suppongo però che venga dal nord... Lo noto dal suo accento. E’ difficile, per me, descrivere l’avversione che provo per lui... Anche se devo ammettere che in questi ultimi giorni è meno spavaldo...  Ciò non toglie che fatico molto a guardarlo, perché i suoi occhi hanno la lucentezza ferrea delle spade. Fra poco dovrò scendere da lui, e il mio cuore accelera i suoi battiti. Perché?  Odio l’amore, sentimento che non capisco e che trovo puerile. L’altro giorno la lattaia ammiccava - E’ bello il prigioniero nuovo, eh Sandrina! - Eh Sandrina cosa? Non sono riuscita neppure a risponderle e sono scappata come una qualsiasi ragazzina innamorata. Non so, per la verità, se Rocco sia bello. So solo che ora sono agitata e la cosa non mi piace per niente.

 

Notte -  Non capisco cosa voglia da me, anche lui! Tutti devono sempre pretendere qualcosa? -  Cassandra si fermò. Tremava leggermente. La grande mano del padre voltò la clessidra e la sabbia scivolò giù, nell’imboccatura.

                

 E se ci fosse una conchiglia

                         una pietra del deserto

                     la sabbia si fermerebbe

                    in un istante

                            di stelle,

                 come girini nell’acqua

 

Rocco, dopo qualche giorno di cella, si rasò i capelli. La lametta era consentita nella Torre. In fondo, se uno avesse voluto farla finita, avrebbe potuto farlo tranquillamente, ma questo non era il suo caso. Egli infatti, voleva vivere ardentemente (come pochi altri, agli occhi di Cassandra).

- Perché ti sei tagliato i capelli? - chiese lei, al di là delle sbarre, una sera.

- Perché loro mi hanno tagliato dentro -  rispose lui, con la faccia indurita. E il suo masticare pareva una rivolta. A Cassandra piacque molto quella frase, tanto che se la scrisse sul quaderno e, nelle ore eterne all’Osservatorio, quando la rileggeva le ritornava in mente lui, accovacciato in un angolo, come una roccia nel buio.

 

- Cassandra! - la voce del padre usciva fluida dalla stanza immersa nella semioscurità. L’uomo-lumaca, con la sua conchiglia pesante, si mosse dal terrazzo tempestato di stelle e si avvicinò ad un viluppo di coperte disordinate.

- Cassandra... -

- E’ giunta la grande ora - le sue labbra, tra la barba cespuglio, erano come petali rosa di un frutto sottomarino. Cass le fissava istupidita, tra la massa di vecchie trapunte che si era gettata addosso.

- Arrivano... Proprio come avevo previsto. Ecco, si avvicina il grande incontro!!!- gli occhi dell’astrologo erano piccole pozze di acqua ferma.

- Quando? - riuscì solo a mormorare lei.

- Domani notte, secondo i miei calcoli -

 

Silenzio nella soffitta. Ask planò proprio in quell’istante e si appoggiò al parapetto di pietra, i pendoli bisbigliavano. Cassandra parve fremere come un passero appena nato, nel suo nido di stracci ed i suoi occhi s’indurirono come astri che ghiacciano.

- Bisognerà partire? - chiese al padre.

- Certo! E’ tutta la vita che ne parliamo! Loro arriveranno, io ho studiato i vari metodi di comunicazione, mostrerò loro le mie carte... E poi, se ci vorranno, saliremo sulle loro navi -

 

     Le navi? Fluttueranno tra gli strati di azzurro? E come saranno? Cassandra si alzò da terra e si diresse verso il terrazzo. Le stelle erano croste di infinito e le lacrime cadevano sul vetro, appannandolo.

 

(11 Gennaio) Non voglio partire. Così, a questo punto, dunque, dovevo arrivare per rendermi conto di quanto io ami tutto ciò che mi circonda, quaggiù. La caffettiera sporca, le macchie di sugo di ieri sul tavolo, la pentola unticcia da lavare, le mie pantofole corrose e gli scalini sdrucciolevoli scolpiti nella roccia che scendono giù nel buio... Perché soltanto adesso me ne accorgo? E poi le scale terminano in una stanza illuminata da una vecchia lampadina e lo sguardo del secondino è ogni giorno leggermente diverso.

Se si svolta a destra appare la cella, con le sbarre fossilizzate in un istante eterno. La finestra dà sul mare e l’azzurro, là fuori, è come uno squarcio. E verso quel colore opalescente è diretto il suo sguardo, tanto che, talvolta mi sembra di scorgere un po’ di blu nei suoi occhi, come un sospiro d’aria.

Da bambina avevo sognato altri mondi, altri universi... Ora mi accorgo di amare ogni istante nella sua semplicità, violentemente... Non posso perdere tutto questo così, fra poche ore.

 

  Cassandra posò la penna lentamente. Era come se gustasse ogni gesto, anche minimo. Chiudere gli occhi , toccare la pagina del diario con un’espressione rugosa sul viso... Ed ogni ruga era un ricordo.  Il sole calava nel mare e spargeva sulla superficie dell’acqua riflessi verdi che vibravano.

                 

  Cass corse giù per le scale, precipitosa come non mai. Un pezzo di manica le si staccò, e lei arrivò dal prigioniero con un’aria grave. Nuvole grigie d’inverno si muovevano nei suoi occhi.

 

  Rocco sorrise nel vederla e si accorse che l’aspettava. I capelli di lei erano raccolti in un’astrusa treccia, come usava di solito, ma nella luce di quel tramonto, questa gli parve ancora più complessa, attorta, nera come un serpente o un giardino di rovi.

- Cavolo... - mormorò solo lei, guardandolo e cercando di sistemarsi la manica strappata.

- Vuoi una sigaretta? - le chiese Rocco, seguitando a sorriderle. Cass scosse il capo, cupa, gli occhi gonfi di acqua di mare.

- Devo partire, forse, stanotte - disse in fretta, con una voce soffocata, da insetto.

- Ah - Rocco non sorrideva più.

- E dove vai? - s’informò fissandole le mani che si annodavano tra di loro, grigiastre come ragni.

- Molto lontano... - sospirò

- Ma ecco io... Non voglio partire più -  e si confuse in quelle parole, pensando di essere stata troppo ardita. Rocco si accese la sigaretta e parve perdersi, aspirando, nella mare profondo e immenso, là fuori. Cass si aggrappò alle sbarre. Le sue mani erano sudaticce e il ferro era freddo. Le batteva il cuore fortissimo e poi il mare pareva colare giù dalla finestra in un gocciolare lento di lacrime.

- Non voglio! - strillò quasi, lei.

Il prigioniero si voltò di scatto e la vide attaccata alle sbarre (quasi fosse lei la reclusa), le trecce irte come penne di civetta o di aquila. E qui capitò un evento imprevisto: Rocco si gettò verso di lei e le strinse le mani, premendo il suo corpo sull’inferriata.

- Anch’io - disse

- non voglio -

 

Forse qualche paesano stava cantando, là fuori, e l’odore delle alghe riempiva anche la cella di vita. Cassandra era sbigottita e sorrideva debolmente, Rocco aveva raccolto nel suo sguardo tutto il brillare dell’oceano.

 

(11 Gennaio: ore 21:25) Il secondino mi ha cacciata: mi ha preso dalle spalle, strappandomi così un altro pezzo di abito e ha bisbigliato - Zozza vatinne, vatinne a casa - Io mi sono voltata e ho visto quest’essere umido come un geco, le labbra sottili come piaghe.

Mi ha spinto via. Mi sono trovata sugli scalini freddi di pietra che salgono su al firmamento... Li ho toccati pensando alle mani asciutte di Rocco che serravano le mie. Non riesco a piangere anche se vorrei; Ask mi osserva dal suo trespolo e nei suoi occhi di ardesia mi rivedo rimpicciolita come in uno scrigno. So che le sue parole sarebbero come gocce d’acqua lentissime nel cadere e la sua voce sarebbe lontana e piena di echi, come quella degli oracoli. A papà non posso raccontare simili sciocchezze (che lui giudicherebbe estremamente puerili) in un momento simile poi, neanche da dire! E’ in attesa al suo telescopio, e il cielo gli parla con intonazioni polifoniche che solo lui può udire.

 

  La grande cupola ruotava e gli istanti erano granelli e battiti di pendoli. Cassandra si era rannicchiata ai piedi del padre e lo fissava dal basso con i suoi occhi profondi da uccello. Avrebbe voluto stringergli quei poveri piedi fermi, ma temeva qualsiasi movimento. La volta d’un tratto, per la prima volta forse nella sua vita, le parve muta, col suo manto bucato. Le stelle erano solo argento ossidato che trapelava dai fori. “Le navi non arriveranno...” pensava e questa idea, a quel punto, non l’esaltava più, perché vedeva l’astrologo farsi più curvo ad ogni ora. Anche Ask era preoccupato e si era appollaiato sulla ringhiera con l’aria un po’ stupida e impacciata da pollo e così, nella sua fragilità, Cassandra, si accorse di amarlo ancora di più.

 

- Papà - azzardò verso l’alba, lei.

L’uomo si voltò e i suoi capelli bianchi erano quasi vivi, nell’aria.

- Papà, se non arrivano oggi e non arrivano domani... Non ti devi preoccupare - Cassandra si sentiva, di colpo, ispirata.

- perché loro sanno che esisti -

Le iridi castane dell’astrologo si allargarono.

Cassandra prese un grosso foglio di carta arrotolato, lo spiegò sul tecnigrafo e si mise a disegnare, rapita, cerchi enormi, complesse spirali e un cono capovolto che puntava verso una sfera minuta.

 

Il padre quasi non ci credeva e la guardava con, negli occhi, l’amore più grande che si possa concepire.

- Cassandra... - bisbigliava assorto

 La voce si perdeva tra le foreste.

- Cassandra -

Lei pareva proprio contenta. Posò la matita bagnata di sudore e sorrise come una bambina.

- E’ questo - spiegò lo scienziato - il mio miracolo... Le navi possono attendere...-

 

(12 Gennaio: alba) Per ora, caro Ask, sono ancora qui, nella stanzetta dell’Osservatorio... Non so per quanto, non so cosa ho scritto sul foglio che ho dato a papà.

Ma qualcosa è successo; i miei capelli non si lasciano più intrecciare e stanno come serpenti sulla mia testa, la mia espressione è mutata. Sì, forse ho paura. Ma ora scenderò le scale buie e il secondino non mi fermerà, ora non più.

 

    Forse dovevo soltanto sentirmi viva, per poter scrivere la voce delle stelle.

 

  Ask aprì le sue ali grandi nella prima luce. Cassandra protese la sua mano bianca, artigliata, verso il volto del rapace, ma non lo sfiorò. Lo sguardo di lei tremò e, finalmente, pianse.

- Si... - mormorò. E le penne del gufo le mostrarono l’arcano, il segno, il geroglifico, il labirinto delle croste celesti. C’era un varco, piccolo, luminoso, e le unghie di lei lo toccavano piano.

il blog rallenta per ferie

Luglio, il tempo perfetto per guardare il cielo... Il blog rallenta per ferie. Posterò però alcuni vecchi racconti un po' più corposi, qualche paginetta tirata fuori dalla cartellina delle scartoffie. Buone letture!

giovedì 4 luglio 2013

Il mare dentro


Marta si accarezzava il ventre, aveva la vita dentro. La vita ancora senza nome, viveva in lei, lo sentiva. Si muoveva come una ninfea nel suo liquido. Marta aveva paura, era tutto così nuovo, eppure aveva anche un coraggio inatteso. Camminava con fatica, giorno dopo giorno nella città, deserto di pietra. Eppure non era più sola, c'era con lei quella quieta ninfea. A tratti sembrava una farfalla finita nell'acqua, a volte invece sembrava una creatura marina che danzava e beveva in lei.
Marta di notte piangeva di gioia e si guardava quel corpo ora così mutato. Il mare dentro. Aveva il mare dentro di sé. Non occorreva più correre come un essere inquieto da un viaggio all'altro, adesso lei aveva tutto. Il mare nella sua pancia.
Ma la paura, ancora c'era. Perché quella dolce ninfea era viva e fragile. Lei avrebbe voluto proteggerla per sempre dal freddo, dalle tempeste e dagli uragani.
Dormi, ora, piccola mia, la mamma è con te. Per sempre con te.


lunedì 1 luglio 2013

nella polvere

Nella polvere sono finita,
le pietre su di me, come una giusta condanna.
Il sangue
inizia a uscire ora,
lo sento. E' caldo.
C'è del liquido anche tra i miei capelli sporchi.
Ecco, ora c'è polvere anche dentro di me.
Fra poco non ci sarà altro che polvere.



E poi tu hai parlato. I sassi bloccati nelle mani.
Rumore di pietre che cadono a terra, non più su di me.
Mi sono voltata, lentamente.
Tu eri in controluce.
Tu mi hai parlato come se fossi una donna e non una bestia.
Tu mi hai salvato.
Da quel giorno io sono nuova,
tu, il mio infinito.
Io mi sono alzata dalla polvere e cammino con te.
Perdonata riesco a vedere il sole, anche dietro le nuvole da tempesta.